lunedì 25 aprile 2016

Louis Sullivan



"Wealth and refinement turned to architects like Charles Follen McKim, educated, literate, at home in the salons of Europe; they certainly did not look at Sullivan, who drunk whiskey stright, worried about democracy, and sounded like a radical."

L'analisi di Carl W. Condit, nelle ultime pagine di "The Chicago School of Architecture" (The University of Chicago Press, 1964) da sola vale il libro. A volte le periferie vincono sul centro, ma poi il centro recupera. Ancor più raramente, le periferie diventano centro. Parigi, New York e Chicago sono casi di un centro che si è spostato a New York, e di una periferia, Chicago, che visse una stagione incredibilmente creativa, ma poi arretrò.

Arretrò anche se aveva ragione, perché i Mies van der Rohe e il suo "less is more", e gli slab a la Skidmore, Owings & Merrill, tornarono all'essenzialità della scuola di Chicago. O almeno, mi pare che sia così.

E io, come mi colloco rispetto al problema generale? D'istinto, parteggio sempre per le periferie: Sullivan mi sta enormemente simpatico, e i salon di Parigi li avrei guardati dal marciapiede, grattando con le unghiette le ampie vetrine, per attirare l'attenzione e sperare di vendere qualche scatola di fiammiferi.

La foto è del Carson, Pirie, Scott and Company Building (1899-1906), una delle opere migliori di Louis Sullivan. Che incredibile eleganza.

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